Prijedor, Bosnia Erzegovina, 1992: una storia che non conosce fine. Quello di Luca Leone e di Daniele Zanon è un promemoria, un avvertimento ma soprattutto un tentativo di costruire una nuova bellezza.
Omarska, Keratem, Trnopolje: la realtà di queste pagine è quella che leggiamo sui libri di scuola, quella che hanno visto in televisione i nostri genitori, quella che ci raccontano i nostri nonni. La deportazione, il genocidio, i campi di concentramento assumono per noi i tratti di una realtà distante, sconosciuta per chi è abituato a una crudeltà diluita, a piccole dosi quotidiane. Eppure è da questi gesti che nascono ideologie dell’esclusione e dell’annientamento come quella vissuta dai “non serbi”.
Luca Leone e Daniele Zanon descrivono la guerra senza tralasciarne nessuna voce: il tempo sospeso, vuoto e trepidante dell’attesa; l’orrore della violenza, degli spari, della sofferenza; l’illusorio senso di appartenenza; il decisivo momento di scontro con la verità di chi siamo; la possibilità che sembra offrirci di vendetta e rinascita; l’incapacità di trovare un senso nella vita che possa fare a meno del conflitto.
La penna di Luca e di Daniele non si sofferma solo sulle tenebre dell’odio, della vergogna, dell’incomprensione, ma prova a tratteggiare una possibile via di luce, una bellezza alternativa che possa costruire un coraggio e una gentilezza da esercitare quotidianamente.
La cura con cui conservare i ricordi delle persone che abbiamo perso, la possibilità di poter scegliere sempre da che parte stare a prescindere dalle proprie radici, la speranza che il male non possa essere ignorato, la necessità della ribellione e della presa di posizione, la forza della gentilezza, il cambiamento inaspettato, il saper perdonare, l’instancabile messaggio di fratellanza: questa storia è il tentativo di dare il giusto valore ai piccoli gesti, senza aver bisogno di perderli per capirne l’importanza.
L’amicizia come primo passo per un pensare e un sentire nuovo che disinnesca il male una volta per tutte.
Citazioni da Tre serbi, due musulmani, un lupo :
Josip pensò ai suoi ragazzi, studenti della scuola media di Prijedor. Erano come tutti i ragazzi del mondo. Alcuni volonterosi, altri svogliati. Appartenevano a famiglie molto diverse, almeno sulla carta. C’erano ragazzi croati di tradizione cattolica, bosniaci musulmani e serbi ortodossi. E poi c’erano gli “altri”. Le minoranze. I suoi ragazzi erano in grado di vivere in pace, ma il mondo, alle loro spalle, la pensava diversamente. In uno strettissimo orizzonte temporale, il professore vedeva il rischio che anche i suoi studenti sarebbero stati costretti a mettersi gli uni contro gli altri. Zlatan guardò le due ragazze. Avrebbe voluto salutare Emina come si conviene. Avrebbe voluto dirle che l’avrebbe aspettata, che sarebbe corso a salvarla, anche in capo al mondo, se solo l’avesse saputa minimamente in pericolo. Avrebbe voluto dirle che l’amava, soprattutto. Una cosa da grandi, però. Fin troppo. E lui non era altro che un ragazzino ridicolo che la sera prima le aveva prese dal fratello. Sentì un senso di vergogna invadergli lo stomaco, e il desiderio di scappare via. Decise di andarsene così, lasciando le amiche strette nel loro abbraccio. – Andiamo Milo! – disse facendo un gesto con la mano e poi sottovoce – Ciao Emina! A presto. – Vieni qua! – fece lei slacciandosi dall’abbraccio della sua migliore amica e, con occhi pieni di lacrime, tuffando le braccia al collo di Zlatan. Fu un gesto sincero, amichevole, nostalgico. Questa volta il cuore del ragazzo non partì all’impazzata. Quasi si fermò, invece, vinto da un senso di vuoto e di disperazione. Zlatan, rispetto a quanto capitato in classe poco prima, non si sentì l’uomo più fortunato del mondo, avvolto in quell’abbraccio tanto sperato, ma il più sventurato nella storia degli uomini sventurati. E più sfortunati ancora i suoi amici e la loro famiglia, e tutte le altre famiglie come la loro. In quell’addio, per la prima volta, ebbe la netta percezione di quanto stava accadendo realmente nel loro Paese. C’era il rischio di una guerra vera. Che avrebbe separato famiglie, parenti, amici. Una guerra che avrebbe messo tutti contro tutti. Un dolore indicibile avrebbe travolto la Bosnia, probabilmente. Un dolore certo più forte di quello che stava provando lui in quel momento. Si sentì piccolo, debole. Eppure avrebbe tanto voluto fare qualcosa per aiutare i suoi amici, la sua Emina. Ma cosa? Nel vortice nervoso dei pensieri, uno in particolare si fece strada fra gli altri. Sua madre, col suo silenzio, era complice di suo padre. Era innegabile. Sua madre avrebbe dovuto proteggerlo, e invece quello che sapeva ripetergli ogni volta era di lasciar perdere. Di far finta di niente. Di sopportare. Ma ora le cose era diverse. Non poteva più bastare quella supplica al silenzio. E soprattutto non poteva più essere giustificata. Erano in ballo questioni che andavano ben al di là delle incompatibilità caratteriali dei membri di una famiglia. Qui bisognava decidere chi si era. Chi si era come famiglia e come individui. Oramai, le colpe che Zlatan attribuiva a suo padre, e dunque forse anche a sua madre per tacito consenso, andavano a specchiarsi nello scenario terribile dell’intero Paese.– Senti… sei tu adesso quella che sta facendo chiacchiere da bar. Siamo solo cinque ragazzini… tre serbi e due musulmani! Cosa potremmo mai fare? -Appunto… siamo in cinque – disse Jelena raccogliendo tutti in uno sguardo-. E cinque non sono pochi. Ci sono persone che da sole hanno cambiato il mondo! – E-e-e u-un lupo – aggiunse Milorad. Tutti si girarono a guardarlo. – Cos’hai detto? – chiese Jelena. – Si-si-siamo tre serbi, du-due musulmani e u-u-un lupo. – Esatto! – esclamò Emina con un sorriso -. Tre serbi, due musulmani e un lupo. Chi ci può fermare?
- […] la Jugoslavia sembrava che non esistesse più e non era ancora ben chiaro che cosa stesse sorgendo dalle sue ceneri calde.
- Alla fine di ogni braccio, una mano con il pollice, indice e medio in evidenza. “Dio, Patria e Zar” che diventavano simbolo d’odio, di aberrazione. Di tragedia imminente. Il Male era tornato nel cuore dell’Europa e aveva messo radici a Prijedor, mezzo secolo dopo la fine dell’Olocausto.
– Quanto durerà questa prigionia, Faris? -Non durerà Emina – […]Non può durare! – urlò Faris verso la sorella, mentre veniva spinto lontano con violenza col calcio del kalashnikov -. Il mondo non potrà starsene in silenzio a guardare!
- Le grida dei torturati uscivano dalle finestre lasciate appositamente aperte e si facevano strada nella notte. S’infilavano dentro ogni angolo e infilzavano ogni cuore. A braccetto delle urla uscivano grasse risate. Faris sprofondò la testa fra le ginocchia e non riuscì a pensare ad altro che a se stesso. E alla paura di morire. Smise di pensare a Emina, ai suoi genitori. Fu vinto solo dalla paura del dolore e della morte. Il terrore fa tremare. Scuoia la pelle e scopre i nervi. E allora anche una carezza fa paura. Si diventa soli. Meschini. Pazzi. Ed è in quella direzione che la prigionia li avrebbe condotti, prima della morte.
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